martedì 5 gennaio 2016

Miseria dell'autogestione e autogestione della miseria

autogest

Autogestione, trappola per idioti?
- L'autogestione della produzione di merci come impossibilità logica -
di Clément Homs

Si possono fare due discorsi a proposito del fallimento della prospettiva autogestionaria. Quello per cui la colpa del fallimento attiene alle circostanze storiche, e quello per cui sono le idee autogestionarie stesse ad aver dimostrato la loro incapacità a comprendere veramente quello che si trova alla base della società capitalista. E' su questo secondo punto di vista che, seppur brevemente, ci concentreremo qui. [*1]
Il fallimento dell'esperienza autogestionaria nel corso del 20° secolo ed in quest'inizio del 21° (in particolare, in Argentina con il movimento dei piqueteros), rimanda ad un fallimento ancora più profondo, quello della strategia delle organizzazioni operaie che a partire dal 19° secolo si basano sul principio che il Lavoro si opponga al Capitale. Cosa che ci porta a sottolineare l'incapacità teorica, comune al marxismo tradizionale ed alle numerose corrente anarchiche, di comprendere quale veramente sia il nucleo delle forme sociali categoriali del capitalismo e della sua forma dinamica. In quanto il pensiero autogestionario ha sempre discusso solamente circa la gestione collettiva dei mezzi di produzione e della distribuzione dei salari ("lavoriamo e paghiamo"), vale a dire che ha posto l'accento soltanto sulla redistribuzione delle sempiterne categorie sociali capitalistiche (lavoro, valore, denaro e merce). Il fulcro di un tale pensiero consiste nel promuovere il ruolo della democrazia in seno a delle aziende nelle quali alla fine rimangono degli attori economici che devono produrre ancora delle merci nelle quali si cristallizza il valore. La pratica autogestionaria rimane in tal modo prigioniera di una naturalizzazione delle forme sociali capitalistiche, dei quattro cavalieri dell'apocalisse capitalista - il lavoro, il valore, il denaro e la merce -, e quindi, necessariamente, non può rappresentare altro che una pretesa "alternativa" che rimane murata in una strada piastrellata dal processo di valorizzazione.
Pertanto, il lavoro non è quell'attività dell'uomo per mezzo della quale, come troppo spesso si crede, egli cerca di riprodursi, ma è quell'attività specifica consacrata alla produzione di merci. Come tale, è un'attività specificamente capitalista che è emersa nel corso degli ultimi tre secoli. Ogni lavoro ha un duplice carattere, cioè a dire due facce che esistono sempre insieme, e mai separatamente. Una faccia concreta, in cui il lavoro è un'attività che trasforma un materiale in "qualcosa di utile" - ed è questa sola dimensione ad essere l'oggetto del controllo operaio in un impresa autogestita. Una faccia astratta, la quale corrisponde al ruolo del lavoro nella società capitalista, nel senso che serve, strutturalmente, da legame sociale per gli individui i quali si rapportano gli uni agli altri attraverso un dispendio di lavoro che permette loro di ottenere una somma di denaro, ecc.. Questa faccia astratta del lavoro - indipendentemente da quello che può essere deciso all'interno di un'impresa autogestita - media una nuova forma di interdipendenza sociale, una forma di sintesi sociale specificamente capitalistica. Stiamo parlando qui di "lavoro astratto", in quanto è a partire da questo carattere di mediazione sociale che il lavoro è l'astrazione della sua faccia concreta [*2]. Ora, questa funzione di mediazione sociale di ogni lavoro fa sì che l'individuo che lo esercita [*3] è, ed allo stesso tempo non è, il suo proprio posto di lavoro. Poiché il lavoro che egli svolge lo rinvia, per mezzo del ruolo di mediazione sociale della totalità del lavoro, alla totalità sociale in tal modo costituita, ben oltre quello che sul luogo di lavoro possono decidere i padroni, la gestione, la volontà di autodeterminazione o gli ideali artigianali del "controllo" della propria attività.

Il lavoro che socializza gli individui e li mette in rapporto gli uni con gli altri costituisce parimenti la sua faccia astratta, una forma di ricchezza sociale intrinseca a questa sola forma di vita capitalistica, una ricchezza che non è sensibile bensì astratta, non osservabile empiricamente né misurabile, il valore, che viene fenomenicamente rappresentato in una pura somma di denaro. Le merci, in quanto risultato di un tale lavoro, non vengono trattate socialmente come dei semplici beni e non hanno, in alcun modo, come finalità la soddisfazione dei bisogni. Sono piuttosto una sorta di male necessario (di supporto) per tale ricchezza astratta capitalista, la quale per esistere deve passare attraverso questi contenitori materiali in cui il valore si cristallizza in maniera transitoria. Certo, questo contenitore materiale e sensibile avrà dapprima la realtà di essere il ricettacolo della "gelatina del lavoro astratto" (Marx), in altre parole un ammasso di valore e di plusvalore, che si è installato provvisoriamente nella merce, per poi emergere meglio sotto un'altra forma, la forma-denaro. La faccia concreta del lavoro (che si seghino della assi ad Ambiances Bois sull'altopiano di Millevaches, o che si fabbrichi un paio di jeans nella Lifeng Textile in un sobborgo di Canton) esisterà sempre soltanto come supporto del lato astratto del lavoro. Il passaggio al controllo operaio del processo di produzione non impedisce in alcun modo alla nuova faccia, ora "autogestita", del lavoro concreto di essere soltanto il semplice supporto della logica tautologica del lavoro astratto. E' sempre il lavoro astratto (una delle due facce del lavoro) ad assumere forme diverse nel corso dei cicli del capitale, passando dal lavoro vivo alla sua cristallizzazione nella merce in quanto forma-valore, passando poi alla forma-denaro quando questa merce verrà venduta sul mercato, per poi in seguito tornare sotto forma di capitale-denaro alla fine della catena ed essere quindi reinvestito all'interno di un nuovo ciclo di rotazione del capitale, allargando la base del lavoro vivo impiegato. Il capitale non è affatto il contrario del lavoro, bensì la sua forma accumulata; il lavoro vivo ed il lavoro morto non sono affatto due entità antagoniste, ma sono due diversi "stati di aggregazione" della medesima sostanza del lavoro. Fintanto che il lavoro costituirà il legame sociale per mezzo del quale ci rapportiamo gli uni agli altri - a prescindere dal fatto che la gestione sia padronale, artigianale o autogestita - ogni individuo che lavora sarà sempre un aggregato di tale lavoro astratto da cui si dovrà trarre il massimo (ciò che Marx chiamerà lo sfruttamento del pluslavoro). Ciò che costituisce la sostanza del capitale non è il fatto che la fabbrica non si trova sotto il controllo operaio, come crede il marxismo tradizionale, ma il fatto che il lavoro, nella sua doppia natura (astratta e concreta) continua ad esistere socialmente. In tale processo metamorfico - in cui l'accumulazione del plusvalore è allo stesso tempo risultato e presupposto - gli individui e le classi non sono altro che i funzionari (i supporti) di questa logica feticistica. I capitalisti esercitano il potere non in quanto dei "signori politici o teocratici", ma perché "personificano il lavoro di fronte al lavoro" (Marx), essi sono i "funzionari del capitale", una "élite di funzione" (Kurz) del sistema feticistico della merce, che non lo domina, ma che ne costituisce la classe che ne trae profitto. Non è mai il dispendio particolare di lavoro a cristallizzarsi nella forma valore di una merce. A causa del suo carattere di mediazione sociale, è lo standard di produttività socialmente medio a determinare - al di fuori della particolarità-lavoro e al di fuori da ogni possibilità di autogestione dei compiti all'interno di una particolare cooperativa - la grandezza del valore cristallizzato dentro la "merce prodotta in regime di autogestione". In un'impresa autogestita, gli ordinativi esterni costituiti dalla doppia natura del lavoro - lo standard sociale di produttività e quindi la totalità sociale costituita dalla mediazione che a suo volta costituisce ciò che è il lavoro - retroagiscono sugli operai che devono decidere democraticamente, se vogliono sopravvivere sul mercato in quanto entità economica, di auto-sfruttarsi, di auto-sostituirsi con delle macchine o di auto-licenziarsi [*4], nella gioia autogestionaria per alzata di mano. Sotto il loro "controllo", gli operai saranno essi stessi i loro propri "funzionari del capitale". E l'auto-sfruttamento senza padroni non è affato meglio dello sfruttamento ordinario.

Senza dover qui evocare le drammatiche esperienze di questi ultimi anni in Argentina, nel corso del 20° secolo si sono visti riemergere nelle esperienze autogestionarie gli stessi percorsi obbligati, come nelle fabbriche autogestite della Spagna rivoluzionaria del 1936-37 dove la forma-denaro riemerse sotto forma di "buoni di lavoro" in quanto il lavoro come tale non era stato superato [*5]. Ma su una scala più piccola, i ricordi degli operai della LIP, nelle loro interviste, dimostrano chiaramente l'amarezza e la fine del mito autogestionario [*6]. Quello che noi ora dobbiamo conferire alla rivoluzione, è una nuova qualità, mettendo in atto la "rottura categoriale ed ontologica" (Kurz): non più liberare il lavoro dal capitale, ma liberarsi dal lavoro in quanto tale, cioè a dire porre fine ad ogni forma possibile di economia.

- Clément Homs - Pubblicato sulla rivista L'An02 - Maggio 2015 -

NOTE:

[*1] - A tal proposito, sul sito "infokiosque", per approfondire si può leggere l'opuscolo "Contro il mito autogestionario"

[*2] - Moishe Postone, Tempo, lavoro e dominio sociale. Una reinterpretazione della teoria critica di Marx.

[*3] - Poco importa qui che la faccia concreta di questo lavoro sia gestita in maniera padronale o sia autogestita, o persino se si parli di un luddista del 19° secolo oppure di un piccolo allevatore del 21° secolo che si oppone all'utilizzo dei microchip.

[*4] - Tutto questo è ben espresso nel libro di Michel Lulek, "Ambiance Bois, l’aventure d’un collectif autogéré", Repas, 2003, che racconta di quando "Ambiance Bois" ha dovuto licenziare.

[*5] - Michael Seidman, "Ouvriers contre le travail. Paris et Barcelone pendant les Fronts populaires"; Myrtille Gonzalbo, « L’anticapitalisme des anarchistes et des anarcho-syndicalistes espagnols des années trente », in Sortir de l’économie, n°4, 2012.

[*6] -  Joëlle Beurier, « La mémoire Lip ou la fin du mythe autogestionnaire ? », in Frank Georgi (dir.), L’autogestion, la dernière utopie, Presses de la Sorbonne, 2003, pp. 451-465.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

Nessun commento: