lunedì 18 marzo 2024

Leggere Marx - I testi più importanti di Karl Marx per il XXI secolo - 2 -

La forma elementare della ricchezza capitalistica

«A un primo sguardo, la ricchezza della società borghese appare come un'immensa accumulazione di merci, in cui la forma elementare di questa ricchezza è la singola merce. Tuttavia, ogni e ciascuna merce si manifesta sempre sotto il duplice aspetto, sia del valore d'uso che del valore di scambio. Innanzitutto, la merce - secondo il linguaggio degli economisti inglesi - è "qualsiasi cosa sia necessaria, utile o gradita alla vita", oggetto dei bisogni umani, e nel senso più ampio della parola, un mezzo di sussistenza. In questo modo, la forma per cui la merce è valore d'uso, viene confusa con quella che è costituisce la sua esistenza materiale tangibile. Il grano, per esempio, rappresenta un particolare valore d'uso, che differisce da altri valori d'uso, come il cotone, il vetro, la carta, ecc.

Il valore d'uso non ha altro valore se non quello dell'utilizzo, e acquisisce realtà solamente nel processo del consumo. E uno stesso valore d'uso può essere utilizzato in vari modi. Ciononostante, la somma di tutti i suoi impieghi possibili è il risultato del suo carattere in quanto oggetto con proprietà definite. Inoltre, non è determinato solo in maniera qualitativa, ma lo è anche a partire dalla sua quantità. Valori d'uso differenti vengono misurati diversamente, a seconda delle loro peculiarità naturali; così abbiamo, ad esempio, uno staio di grano, una risma di carta, un braccio di stoffa, ecc. Qualunque sia la forma sociale della ricchezza, a costituirne sempre il contenuto, sono i valori d'uso, e pertanto esso rimangono indifferenti a tale forma. Consumando del grano, non si percepisce chi l'abbia coltivato: se il servo della gleba russo, il paesano del villaggio francese o il capitalista inglese. Sebbene il valore d'uso corrisponda ai bisogni sociali, e sia pertanto connesso alla società, esso non esprime un rapporto di produzione sociale. E questo anche se questa merce dovesse essere considerata persino nel suo valore d'uso, per esempio, di diamante. Guardando un diamante, non si percepisce come se fosse una merce. Quando esercita la sua funzione di valore d'uso estetico, o tecnico, intorno al collo di una signora, o in mano a un gioielliere, rimane un diamante, e non una merce. A quanto pare, sembra sia necessario che la merce debba essere per forza un valore d'uso; mentre invece non importa se il valore d'uso sia o meno una merce. Il valore d'uso, se viene considerato a prescindere da quella che è la sua formale capacità economica - vale a dire di valore d'uso in quanto tale - esso viene collocato al di fuori della sfera di osservazione e analisi dell'economia politica. Il valore d'uso vi rientra solo nel momento in cui viene specificato economicamente. Esso costituisce, in maniera diretta, la base materiale attraverso la quale si manifesta una particolare relazione: il valore di scambio.

Il valore di scambio, appare soprattutto come se fosse una relazione quantitativa, nella quale i valori d'uso possono così essere scambiati. In un simile rapporto, tutti questi valori vanno a costituire un'identica ampiezza di scambio. In tal modo, così facendo, un libro di Properzio e otto once di tabacco da fiuto, prescindendo da quale possano essere le differenze tra il valore d'uso del tabacco e quello dell'elegia, possono finire per avere il medesimo valore di scambio. Considerato come valore di scambio, un valore d'uso vale esattamente tanto quanto un altro, purché esso venga presentato in maniera che la loro proporzione sia adeguata. Così, il valore di scambio di un palazzo può essere espresso in un certo numero di barili di bitume. Dal canto loro, i fabbricanti londinesi di bitume, invece, esprimono in palazzi quale potrebbe essere il valore di scambio dei loro barili di bitume, moltiplicandoli. A prescindere, infatti, dal modo naturale in cui esse esistono, senza considerare quale sia la specificità del bisogno del quale esse sono valori d'uso, le merci, in determinate quantità, si bilanciano a vicenda, si sostituiscono nello scambio, vengono considerate equivalenti, e quindi rappresentano in tal modo una medesima unità, nonostante quelle che sono le loro diverse apparenze.»

(da: Karl Marx, "Per la critica dell'economia politica, 1° quaderno", prima edizione, 1859)

Dimenticare Benjamin ?!!???

Come ha scritto l'Agamben "beniaminiano"  nella sua "Signatura rerum" (Bollati Boringhieri): la teoria può essere legittimamente esposta solo sotto forma di interpretazione.
La morte di Benjamin, avvenuta in un oscuro valico di frontiera, dimostra - come scrive Beatriz Sarlo rovesciando la sua famosa "Tesi sulla Filosofia della Storia" - in che modo ogni atto di barbarie possa anche essere un atto di cultura. Prima dell'episodio finale, relativo alla chiusura temporanea della frontiera tra Spagna e Francia, che lo ha portato al suicidio, ce ne fu un altro, in cui la sua biblioteca venne perquisita, e parte dei suoi manoscritti vennero confiscati. «Come avrebbe potuto continuare a vivere senza di essi?» - si chiese allora Hannah Arendt. Proprio Benjamin, che dell'arte di citare aveva fatto una delle più alte forme di scrittura (la passione della citazione abitava tutto ciò che scriveva) e per il quale la biblioteca, oltre al fatto che gli serviva come una valigetta degli attrezzi, era non solo uno spazio fisico e intellettuale, ma anche un luogo di vagabondaggio e di ozio [si veda "Tolgo la mia biblioteca dalle casse"; 1931]. Gli è che la biblioteca (e lo sanno bene il i perseguitati di tutti i regime) è la prima cosa che si perde. Tuttavia, bisogna resistere alla tentazione di credere che tutto avrebbe potuto finire in maniera diversa. Nelle fatali coincidenze, si trovano come le tracce di un destino che egli non ha mai evitato: Benjamin non ha mai saputo gestire né la sua vita né il suo lavoro. Il suo interesse principale era riservato soprattutto alla riproduzione estetica e, fondamentalmente alla città. Ossia, l'oggetto inafferrabile della sua opera incompiuta; “Il Libro dei Passaggi", nel quale un complesso manufatto urbano viene esaminato nelle sue dimensioni materiali e simboliche. Non una città, quanto piuttosto la spazializzazione del capitalismo e dell'arte moderna. Nel suo resistere a normalizzare la propria scrittura - adattandola alle regole della cultura accademica, o del mercato editoriale - è racchiusa la chiave formale di lettura di tutta la sua opera. Se guardati da un punto di vista professionale, i comportamenti di Benjamin appaiono goffi, e tutte le difficoltà che incontrava a pubblicare i suoi scritti vengono in qualche modo anticipate da delle strategie che sembrano allontanare proprio i fini che invece pretendeva di perseguire. Quel che Benjamin ha effettivamente detto, è assai meno importante di quello che Benjamin sta dicendo oggi; sostiene Beatriz Sarlo. E questa lettura lo colloca in una prospettiva del presente, e trova in lui tutta una serie di stimoli a pensare, che non sono solo i temi a cui pensava Benjamin, ma sono tutti i temi e le questioni di oggi. A partire da Benjamin, si definisce un campo di pensiero nel quale tutti i suoi temi si intersecano con le ossessioni dei suoi lettori. E in questo modo, Benjamin viene riattualizzato e, al limite, come funzionalizzato. L'attualità di Walter Benjamin, in quanto pensatore della crisi, unifica le letture "di parte" della sua opera. E tale lettura colloca Benjamin in una topografia contemporanea. Tuttavia, va ricordato come questo pensiero della crisi sia anche un pensiero di diffidenza per quel che riguarda l'eccesso di coincidenze. Benjamin basa la possibilità della traduzione, proprio a partire dal riconoscimento del fatto che la traduzione «intrattiene una relazione sproporzionata, violenta e strana nei confronti del proprio contenuto». La traduzione permette che si possa sfuggire a quella incomprensione che Babele ha installato nelle società umane, e nelle loro lingue, però questa via d'uscita non è stata aperta sulla strada dell'uguaglianza, ma su quella dalla differenza. Ed è in questo senso, che l'atteggiamento più risoluto, fermo e deciso di Benjamin, consisteva nel diffidare delle sue stesse proprie certezze, una diffidenza e una mancanza di fiducia ancora più necessaria di quanto lo fosse la critica delle altrui certezze.

Dei libri che più ci interessano, raramente andiamo a cercare, per leggerle, le bozze, e quasi mai ne esaminiamo le fonti. L'esistenza di un libro finito annulla - tranne che per gli specialisti - tutte le tappe attraverso cui è passato. Anche qualora vengono alla luce dei nuovi frammenti relativi a un'opera che è già stata canonizzata dalla lettura, ecco che questi frammenti diventano difficili da inserire nel proprio preconcetto; e questo anche nel caso che si sapesse che l'opera era rimasta incompiuta. Oggi, invece, con Benjamin non abbiamo un libro definitivo, quanto piuttosto una massa di materiale ancora più vivo, per mezzo del quale possiamo spiare Benjamin, contraddicendo la vocazione alla segretezza e all'occultamento di cui parlavano i suoi amici. La sua opera è come un enigma che, non essendo stato risolto nel libro, lascia aperte molte di quelle strade che un libro finito avrebbe chiuso per sempre. Così, invece abbiamo "L'officina di Walter Benjamin", qualcosa che è come se si riferisse all'archeologia. Ma è un'archeologia a rovescio: anziché ricostruire una totalità perduta di quei resti, ci troviamo a lavorare sulle rovine di un edificio mai costruito. Le citazioni, trasportate da un luogo all'altro e strappate dalla loro origine testuale, riproducono un movimento. Con le citazioni - sostiene Sarlo - Benjamin intrattiene un rapporto originale, poetico o, per meglio dire, che corrisponde a un metodo di composizione, che oggi descriveremmo facendo ricorso alla nozione di intertestualità, incorporandole nel suo sistema di scrittura, tagliandole e ripetendole, guardandole da più parti, copiandole più volte, parafrasandole e commentandole, adattandosi ad esse, seguendole come si segue la verità di un testo letterario; le dimentica e le ricopia. Ne trae un significato, esigendolo. Benjamin mette insieme le citazioni, e le modella come se fossero suoi scritti personali, disponendole sulla pagina seguendo il  senso di un composizione. A volte le ripete, le citazioni, facendole precedere da un suo breve commento; invece a volte le incorpora in un testo più lungo all'interno del quale hanno già acquisito l'aria della prosa benjaminiana, dal momento che le ha trasformate fino a ché non sembra che le abbia scritte, e non copiate. Lo stesso fa con i propri testi, trattandoli come fossero citazioni, spostando interi paragrafi da un'opera precedente all'altra, ricomponendo frasi e cambiando un aggettivo. Una volta faticosamente copiati, i paragrafi altrui e la ripetizione dei propri, riempivano quaderni e taccuini e restano in attesa di un posto nel quale finiranno per apparire come se fossero stati indispensabili. Beatriz Sarlo afferma che Benjamin sia stato un affascinante conversatore. Come scrittore, questa qualità dialogica lo spingeva verso la citazione, come una sorta di amicizia con la scrittura degli altri, la quale è allo stesso tempo un riconoscimento, una competizione e un combattimento. La citazione non è soltanto la presentazione di una prova di ciò che deve essere dimostrato (come avviene nella scrittura convenzionale), ma rappresenta una strategia di conoscenza. La citazione, da parte sua, condivide con l'aforisma la brevità e l'isolamento rispetto a un testo corrente. In realtà, ogni citazione scelta in maniera significativa funziona come se fosse un aforisma.

Sostiene Benjamin, che il collezionista spoglia la merce del suo valore d'uso, sottraendole la sua funzione pratica, sospende la sua circolazione, e la incorpora in uno spazio ordinato e artificiale, spinto da un impossibile e mai rassegnato desiderio di totalità. Un intento utopico, dal momento che, per definizione e per sua stessa logica, non può esistere una collezione completa. La verità, pertanto, vive nei dettagli, senza mai però stabilizzarsi in essi, e così passa da uno all'altro e, soprattutto, emerge nel contrasto. Benjamin conosceva questa passione per il dettaglio, e la praticava con l'acutezza di quello che Adorno definiva "sguardo microscopico", ovvero lo sguardo di Medusa, il modo in cui Benjamin chiamava lo sguardo dei Surrealisti. Nelle collezioni, aveva scoperto lo spirito di un'epoca che tuttavia non può essere colto nei suoi grandi movimenti, ma piuttosto nell'apparente insignificanza dei dettagli. Secondo Sarlo, egli illumina l'insolito e il particolare, e lo fa con la certezza che - astratto, ritagliato e ancorato a partire da un tale sguardo - possa così essere posseduto. Lo sguardo della Medusa cattura il fuggiasco, e lo fissa allo stesso modo in cui uno spillo fissa la farfalla alla collezione. D'altra parte, nei suoi viaggi che inventa nelle città (Berlino, Mosca, Parigi), Benjamin ottiene una sorta di illuminazione profana, come un modo laico e materiale di rivelare la verità a sé stesso. L'arte (Benjamin lo ha notato più volte a proposito dei Surrealisti) ha un'intensa capacità di produrre questi incontri inaspettati tra i diversi sensi. Né relativista né scettico, Benjamin lavorava con determinazione all'impresa di conoscere il significato dell'arte in relazione a quello che era il suo contenuto di verità. E come nel, e con il, ricordo, questo contenuto di verità rimane nascosto nelle pieghe e nei dettagli di una materialità che Benjamin sa essere infinita, ma che può manifestarsi e solo così arrivare a essere conosciuta in una piegatura della storia. Benjamin è senza dubbio sovversivo a causa della corrosione a cui sottopone i suoi materiali artistici. Ma lo è ancora di più a causa di questa idea che non scompare mai dalla sua impresa teorica e critica; quella dell'esistenza, segreta e sfuggente, di un contenuto di verità che produce conoscenza, e che tende ad assumere una dimensione pratica. L'arte, in quanto luogo privilegiato di questa conoscenza, reca in sé i segni del passato, i segni dello sfruttamento e del dolore, e allo stesso tempo annuncia anche il futuro. Ma non c'è sintesi, bensì conflitto, e così la forma della sua verità è la contraddizione.

Benjamin non ha mai esposto la sua estetica in modo sistematico; le sue osservazioni si possono trovare tipicamente sparse nei suoi testi. E tuttavia, le sue idee estetiche sono singolarmente tutte concentrate sul tema della produzione poetica di un contenuto di verità che sprigiona energie rivoluzionarie. Come racconta Beatriz Sarlo, nel suo famoso saggio: "Surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei", del 1929 - dove compare la formula delle "illuminazioni profane", che (in opposizione alle illuminazioni della religione) mostrano, nel lavoro poetico dell'immagine, l'unione di elementi apparentemente lontani tra di loro il cui incontro produce una rivelazione e un impulso alla riconversione del tempo storico. L'illuminazione profana, coglie l'esistenza di qualcosa di inedito, come la potenzialità di conoscenza dell'estetica. La condensazione formale e semantica dell'immagine, produce una conoscenza che è sociale, ma che lo è solo attraverso l'arte. E questa conoscenza mette in moto un impulso rivoluzionario di redenzione, dal passato verso il presente. La dimensione filosofica della critica letteraria di Benjamin poggia su una rete di tesi che appartengono a due filoni; uno materialista, l'altro messianico. Come scrive Sarlo, nessuno di questi due filoni prevale completamente. Benjamin ha sempre mantenuto la tensione tra una prospettiva materialista e una dimensione utopica, morale, che deve cogliere nel passato la traccia dello sfruttamento (o della barbarie, per dirla con le sue parole) per riscattarla. L'articolazione di queste due prospettive rende densa, convulsa e spesso enigmatica, l'ininterrotta vocazione interpretativa di Benjamin. Dal suo rapporto con il surrealismo, egli ha mantenuto il voler leggere il passato come se fosse un sogno, dove il vecchio resiste in quanto rovina e il nuovo emerge come frammento. Pensare il passato nel modo in cui emerge, spesso violentemente, nel presente. Scoprire di quale preistoria è costituito il presente, che nell'arcaico mostra le lacerazioni e i debiti con il passato. Tutto ciò, non è estraneo alla sua teoria della memoria, dove l'oblio è più vasto e più strutturale del ricordo, e dove il ricordo è solo un'avventura. Il presente (il capitalismo) ha sempre un carattere enigmatico e critico. Non è la storia l'unico enigma, ma la sua configurazione attuale che si manifesta disarticolata come un incubo. La sua forma di conoscenza è l'immagine dialettica. Benjamin lavorava tra questi due estremi: quello della manifestazione della storia come paesaggio in rovina e quello della sua conoscenza attraverso una scrittura capace di costruire un'immagine in tensione. Adorno e Benjamin discutevano su come costruire una mediazione dialettica tra i fatti materiali e i discorsi. Adorno riteneva che Benjamin non fosse dialettico, ma che costruisse le sue illuminazioni critiche collegando estremi de quali non esplorava sufficientemente l'articolazione. In "Poesia e capitalismo", la scelta degli oggetti che compie Benjamin rivela una radicale originalità. Nessuno fino ad allora aveva pensato alla cultura vedendola come profondamente immersa nel suo ambiente materiale e urbano. Questi saggi scoprono degli indizi inediti, come quello relativo alla comprensione della dimensione culturale delle trasformazioni materiali e urbane, o la scoperta (non esiste parola più precisa) che la città e La poesia moderna sono implicite come produzioni simboliche e presupposte come esperienza. La cosa si condensava praticamente in una figura, quella del flâneur, il passeggiatore urbano, consumatore, nevrastenico e un po' dandy, che per Benjamin sintetizzava l'idea di anonimato nella città moderna e nel mercato; tutti spazi questi, in cui si impongono nuove condizioni di esperienza. Con Simmel, Benjamin condivideva la sensibilità moderna per lo shock prodotto nella metropoli. Con Simmel percepiva anche quel movimento di fuga in cui tutto diventa transitorio. Bisogna ricordare che le somiglianze lo preoccupavano sempre, tanto in letteratura quanto nella teoria del linguaggio. Per Benjamin, la somiglianza non è identità, perché se lo fosse perderebbe il carattere inquietante della somiglianza e si stabilizzerebbe nel momento riconciliato dell'uguale. Trovare somiglianze significa costruire un'immagine critica (in quelli che sono i due sensi della parola "critica"). C'è anche un testo citato ad nauseam, "L'autore come produttore", in cui Benjamin stabilisce un'ipotesi moderna e modernista relativa al rapporto esistente tra letteratura e società, secondo cui la tecnica letteraria, in quanto concetto che va oltre l'idea di forma e oltre la tendenza ideologica dei testi, rende possibile un'analisi materialista della letteratura.

Ciò che chiamiamo l'Accademia (quest'apparato che assegna legittimità e prestigio al sapere, e ci dice anche che cos'è) è parificante poiché, per appartenervi, quasi tutti fanno le stesse cose, e seguono le medesime tendenze di un mercato simbolico specializzato. Oggi è diventato evidente - sottolinea Beatriz Sarlo - che il sapere universitario è stato standardizzato secondo le regole dell'accademia. Questo ha diverse conseguenze, come l'espansione diffusa ma ampia di alcune ondate teoriche. Un esempio è la diffusione esplosiva dell'etichetta "studi culturali". Un altro è l'ostinazione con cui, dalla critica letteraria così come dalla semiotica e dall'analisi culturale, viene evocata la città come soggetto. La moda di Benjamin - che ha preso piede negli anni Ottanta - fa parte di questo fenomeno. Si tratta di un mormorio nel quale la parola viene usata come sinonimo inaspettato di praticamente qualsiasi movimento si svolga negli spazi pubblici. Si parla di flânerie in città anche dove, per definizione, l'esistenza del flâneur sarebbe impossibile. Il semplice passeggiatore serale è diventato un personaggio di un romanzo filosofico urbano, tratteggiato a partire dalla teoria della modernità di Benjamin nel XIX secolo, o con le rovine del capitalismo catturate nella vetrina delle sue merci. La cosa non è nuova, visto che questa trasmutazione è avvenuta con Foucault (improvvisamente ci si è trovati ad affermare che il sapere produce potere o viceversa). La lettura di Benjamin ha prodotto una sorta di erosione teorica che corrode l'originalità benjaminiana, facendolo fino ai limiti della completa banalizzazione, citandolo come se citarlo garantisse la produzione di un nuovo significato sui diversi palcoscenici. Diviene pertanto necessario, allora, richiamare alcune questioni già note. Benjamin, sottolinea Sarlo, non ha studiato le città perché erano un argomento alla moda. Cercava un significato e, naturalmente, ha trovato le città come palcoscenico. E così Parigi incontra Benjamin perché essa è uno scenario culturale indispensabile per riuscire a comprendere qualcosa che non è Parigi, o almeno non è solo Parigi. Più che altro, si tratterebbe di seguire l'itinerario attraverso il quale Benjamin arriva in città, partendo innanzitutto da quell surrealismo da cui poi cerca di separarsi. Tuttavia, appare oltremodo chiaro che egli sia arrivato a Parigi in quanto la città è una delle chiavi culturali per comprendere il movimento dell'arte e il movimento delle merci. Sono i temi legati a «lavoro in corso» a indicare ciò che Benjamin stava cercando: le immagini del sogno che la città materializza, l'illusione della novità riguardo la merce e la moda, tutte cose che mostrano la preistoria del XX secolo nelle forme merceologiche del XIX secolo. Nella città, riconosceva oggetti costruiti, disposizioni e utilizzi dello spazio, tipi, sistemi di movimento e di comunicazione, icone tecnologiche che circondavano l'impulso teorico e critico della sua impresa. Come avviene nel momento in cui Benjamin propone Parigi vedendola come costruzione dell'immaginaria storica critica. Ma c'è anche una svista, in Benjamin: riguardo Parigi, lascia incompiuto un lavoro nel quale seguiva «il problema della metropoli focalizzata in termini di esperienza»; e la perdita di ogni esperienza nella metropoli. Benjamin lavorò a materializzare le immagini provenienti dalla letteratura, che lo avevano portato a costruire Parigi sotto forma di un problema. «La predilezione di Haussmann per la prospettiva costituisce il tentativo di imporre forme artistiche alla tecnica (in questo caso l'urbanistica). Questo tentativo porta sempre al kitsch». Queste frasi mostrano chiaramente il modo di procedere di Benjamin: l'idea che lo spinge a occuparsi delle forme simboliche e materiali della circolazione delle merci nella vita sociale. Propone il rapporto tra il divenire tecnico e la forma estetica, il rapporto tra arte e società. La teoria della conoscenza e la teoria del progresso, coincidono con il sogno e con la città sognata, dando forma al modo in cui Benjamin legge la città servendosi di frammenti e di citazioni. Nel frammentarismo di Benjamin, nel suo recupero estetico ed epistemologico del collage e della citazione, non c'è semplicemente una rottura con la totalità, quanto piuttosto una crisi della totalità che, simultaneamente, rimane l'orizzonte delle creazioni storiche e critiche. In Benjamin, c'è nostalgia della totalità, nello stesso momento in cui la consapevolezza di essa viene erosa nella dimensione estetica e nel mondo dell'esperienza. Benjamin è uno scrittore della crisi, ma non il suo apologeta.

Beatriz Sarlo conclude affermando che - per gli appassionati della città moderna - l'utilizzo di Benjamin, visto come teorico degli studi culturali e come teorico di un catechismo per dilettanti, ha raggiunto i suoi limiti. Egli non ha mai avuto piena fiducia filosofica nelle nozioni che proponeva. Ma piuttosto si trattava solo di scoperte rappresentate nella forma dell'immagine, della costruzione narrativa o poetica della storia. Per quanto fossero, d'altra parte, nozioni fortemente storiche. La complessità di Benjamin (quel tratto d'avanguardia, il quale fa sì che non lo si trovi mai laddove lo si cerca, quel flusso di significati e contraddizioni che i suoi testi costituiscono) rende ancora più ammirevole l'operazione di canonizzazione semplificatrice cui è stato sottoposto in ambito accademico; soprattutto da quelle letture  che oggi chiamiamo studi culturali, le quali ora tendono a diventare un capitolo della critica letteraria che li utilizza per chiudere (malamente) la discussione teorica sulla letteratura e sulla dimensione simbolica, o materiale delle società. Ed è in una simile Repubblica che la città diventa, per l'appunto, Capitale. La riproduzione tecnica, in sede accademica, pone la città come se si trattasse di una sorta di imperativo dell'analisi, come un'unità indispensabile. Quanto meno, non viene studiata allo stesso modo in cui Benjamin studiava la Parigi del XIX secolo. Pertanto, ciò che viene proposto dalla moda dei temi urbani, fondamentalmente, è un lessico. Queste fiches vengono giocate sul tavolo di qualsiasi città, dove (come avviene nelle merci del capitalismo, la cui fantasmagoria Benjamin interrogava) ci sono sempre delle persone che si spostano da un luogo all'altro, c'è sempre una storia che si perde, e una memoria che si cerca di costruire, ci sono sempre soggetti scissi che finiscono per non riconoscersi in nessun luogo, e questi soggetti riescono sempre a utilizzare lo spazio per costruire un senso.
L'uso dello spazio costruisce sempre dei significati, c'è sempre qualcosa che va come alla deriva, c'è sempre qualcosa che, attraverso dei nuovi utilizzi, diventa privato, e qualcosa che passa a esser parte del pubblico. Un andirivieni di linguaggi sulla città. La banale banalizzazione di Benjamin insegna ben poco, è solo quasi un glossario. Allora, perché non dimenticare Benjamin senza ulteriori indugi? Forse perché i conflitti teorici continuano a essere ancora la parte più interessante di un'impresa critica che colloca le cose laddove esse possono essere produttive. Per questo Benjamin ha scritto: «Marx espone il nesso causale tra economia e cultura. Non si tratta di esporre l'origine economica della cultura, quanto piuttosto dell'espressione dell'economia nella cultura. Detto in altri termini, si tratta di cogliere un processo economico in quanto proto-fenomeno ben visibile».

fonte: Materia Costruida

domenica 17 marzo 2024

Abitare il labirinto !!

Poetici, enigmatici, oracolari, i pensatori più antichi sono dominati da una drammatica complessità che da sempre mette in crisi i lettori. Eppure è alla portata eterna dei loro versi vertiginosi e sconcertanti che si affida Matteo Nucci per ricordarci quale sfida dobbiamo accettare per non dimenticare la nostra vera natura. Furono, infatti, questi sapienti – Eraclito, Parmenide, Empedocle – a dare la risposta piú esatta e oscura. Ed è proprio con la loro oscurità che dobbiamo confrontarci, se vogliamo vivere fino in fondo il potere e la debolezza di ciò che ci allontana dal regno animale, il logos, per fare esperienza della nostra umanità, e soprattutto della nostra animalità. Rileggendo miti in cui umano e animale s’intrecciano in creature fantastiche – dal Minotauro alla Sfinge -, attraversando i secoli per trovarci di fronte a scrittori come Dürrenmatt e Hemingway, o poeti come Kavafis e García Lorca, scopriamo quanto potenti e irresistibili siano certe riflessioni antiche, quanto storie famosissime come quelle di Edipo e di Arianna possano farci guardare con altri occhi a temi che di solito giudichiamo con il pregiudizio della superficialità. Corredato dalle illustrazioni di Giovanni Battista Porzio, Il grido di Pan ci mette di fronte alla verità decisiva: «Cosa siamo noi se non animali mortali? Esseri che nascono e muoiono, immersi in un ciclo continuo di nascite e morti, noi come quegli animali che invece il nostro logos non lo condividono. Ecco ciò che siamo e che dimentichiamo».

(dal risvolto di copertina di: Matteo Nucci, "Il grido di Pan". Einaudi, pagg. 180, € 14,50)

Rintracciare la nostra natura di animali mortali
- di Piero Boitani -

Il nuovo libro di Matteo Nucci è ricco, densissimo, molto bello: e lievemente esasperante, perché quasi a ogni pagina l’autore riapre l’argomentazione con un contropiede, un “sed contra”, come avrebbero detto gli Scolastici, insomma con il contrario di quanto detto sino a quel punto. Naturalmente, questo continuo stop-and-go serve anche a tener desta l’attenzione, a stimolare la fascinazione, a irretire il lettore. E di fascino ce n’è tanto, perché Il grido di Pan vuole rintracciare niente di meno che il «pensiero delle origini» alla ricerca della nostra animalità. Sin dall’inizio l’uomo è per Nucci «animale mortale»: definizione quasi tautologica, che ispirò a Bertolt Brecht uno dei suoi distici più belli: «ihr sterbt mit allen Tieren / und es kommnt nichts nachher»; morite come tutti gli altri animali, e dopo non viene nulla. La definizione filosofica classica, proveniente da Aristotele, e poi canonizzata dal Medioevo, è invece «l’uomo è un animale razionale», con la variante di Boezio: «l’uomo è un bipede implume e razionale», che mescola Platone e Aristotele. Ma la frase di Aristotele è assai più ambigua nell’originale, perché dichiara l’uomo animale logon echon, che ha il logos. Il problema però è che non è proprio facile capire cosa sia il logos, parola che usano sia Eraclito che l’evangelista Giovanni, evidentemente in due accezioni diverse. E infatti Nucci intitola la prima sezione del suo libro «Il labirinto del logos». Labirinto: cioè per definizione il luogo dove ci si perde e dal quale non si riesce a uscire.

Il Labirinto per eccellenza fu costruito dall’ateniese Dedalo a Creta per tenervi rinchiuso il Minotauro, l’animale-uomo frutto dell’unione tra Pasifae moglie di Minosse e un toro. Pasifae, dentro una vacca di bronzo costruita sempre da Dedalo, si unì all’animale e partorì il Minotauro. Al principio dell’amore di sapienza – della filo-sofia– sta la meraviglia, come tutti i pensatori, da Platone e Aristotele fino a Heidegger, hanno sostenuto. Ma all’inizio il logos, la sapienza, è soprattutto una sfida, sostiene Nucci: la sfida di un altro essere «dotato di caratteri umani femminili e di artigli rapaci»: la Sfinge. Quella che, alle porte di Tebe, poneva il famoso interrogativo sulla creatura «che ha due piedi, e quattro e tre, e possiede una sola voce». Chi non indovinava la risposta moriva. Finché un giorno non si presentò davanti ad essa Edipo, che dette senza esitare la soluzione: quella creatura è l’uomo, che da bambino avanza su mani e piedi, da adulto su due gambe, da vecchio su tre, cioè con un bastone. La Sfinge, battuta, precipitò nell’orrido abisso sul cui orlo si trovava. Edipo, come Dedalo, certamente possedeva il logos, anche se non gli portò fortuna.

Dedalo, più creativo, fornì anche ad Arianna il filo che permise a Teseo, dopo aver ucciso il Minotauro, di uscire dal Labirinto di Creta. Dedalo aveva costruito l’enigma, e lo risolse distruggendolo. Ma Teseo abbandonò Arianna sull’isola di Nasso, dove fu soccorsa da Dioniso, che incarna una sapienza ben diversa. Di esseri umani e animaleschi a un tempo è piena l’antichità, e pieno il libro di Nucci. Sileni, satiri – come quello, sconvolgente e sublime nella sua danza, di Mazara del Vallo – e appunto Pan, l’uomo-capro: colui che insegue e ingravida le ninfe che genereranno satiri e sileni; che ispira i canti da cui nasce la tragedia; che, figlio di Ermes, sarà oggetto dell’amore folle di Dioniso; il dio che grida seminando il terror panico. All’estremo opposto, i cavalli di Achille, Balio e Xanto: immortali, parlanti, piangenti, e dotati di logos. In mezzo, Socrate, il «sileno ironico».

In questo modo, ho però sfiorato appena profondità e ampiezza del libro di Nucci. Perché se la prima sezione è introdotta dalla meraviglia, la seconda, intitolata «Morire prima di morire», reca una intestazione all’aporia, che sempre accompagna lo stupirsi. Se la prima parte si apre con il Minotauro, la seconda si schiude sul magnifico Minotauro di Dürrenmatt. La tattica impiegata da Nucci è ispirata a prenderci in contropiede. E di questa tattica fanno parte i pezzi di bravura dedicati a racconti moderni, come Zorba il greco di Kazantzakis e Il vecchio e il mare di Hemingway, uno dei libri più belli del Novecento per il quale nutro una vera passione: la storia del vecchio pescatore Santiago che dopo 84 giorni di sfortuna finalmente pesca un marlin enorme, che lo trascina per miglia nell’oceano prima di morire e finire, issato sul fianco della barca, completamente divorato dagli squali. Santiago, solo sul mare, parla continuamente al suo pesce e, rientrato nella sua capanna dopo tre giorni, sogna i leoni (ecco l’uomo, in veste di eroe, legato all’animale).

Ma i protagonisti del Grido di Pan sono, con Empedocle, Eraclito e Parmenide. Opposti l’uno all’altro da Platone quali esponenti del divenire l’uno, e dell’essere l’altro, figurano insieme agli altri cosiddetti Presocratici nella sistemazione aristotelica del pensiero arcaico all’inizio della Metafisica. Nucci dedica a questa triade più di cento pagine davvero memorabili, esplorando a fondo i “poemi” di Empedocle e Parmenide e i frammenti di Eraclito. Li rende vivi, scavando nelle parole e nella musica di questi sapienti all’origine del nostro pensare. Impossibile riassumere questi capitoli, che vanno letti pagina per pagina insieme ai brani dei “filosofi” – e al paragrafo sul kouros, l’uomo dal sorriso enigmatico, i pugni chiusi, che irrompe nello spazio: colui che «possiede in sé la fanciullezza che annichilisce il disincanto» e «si sta aprendo all’ignoto». Poi arriva la morte di Pan narrata da Plutarco nel Tramonto degli oracoli: una misteriosa voce dalla terraferma l’annuncia a Tamo, il pilota egizio di una nave che fa vela verso l’Italia. Da Prudenzio a Milton fino a Conrad “significa” la fine della civiltà antica sulla soglia dell’era cristiana.

- Piero Boitani - Pubblicato su Domenica del 15/10/2023 -

sabato 16 marzo 2024

La legge delle Star, e il suo superamento !!

« Le figure torreggianti delle star maschili dell'età dell'oro del cinema si sono ridotte a una congerie di star della tv, che a volte fanno il passo più lungo della gamba, e ad attori seriamente impegnati nella professione o quasi, che si rifiutano di lasciarsi colare nello stampo della figura mitica. Attori di considerevole talento e fascino come De Niro, Al Pacino e Tom Hanks hanno preferito la versatilità all'antica legge della star, che esigeva coerenza nella scelta dei personaggi da interpretare. Seguendo la via aperta da Brando, hanno evitato di presentare un'identità mitica al loro pubblico.  Star del cinema contemporanee, ma più "all'antica", come Clint Eastwood o Bruce Willis, hanno trovato pochi registi in grado di mettere le loro qualità al servizio della creazione di un mito;  anche se Eastwood ha capito il principio assai bene, e ha imparato a dirigere così efficacemente che in pratica ha continuato a creare da sé la propria immagine mitica. Solo pochi altri attori oggi (come Jack Nicholson), e un unico politico (Bill Clinton), sono indissolubilmente fusi con la loro immagine come le star cinematografiche delle origini. »

(da: Peter Bogdanovich, "Chi c'è in quel film?", Fandango libri. pag.55)

Gli europei tornano alle armi !!

Il nuovo progetto della Germania per l'Europa
- di José Luís Fiori -

All'inizio del 2024, quattro fantasmi si aggirano per l'Europa! La crisi economica, lo sconvolgimento sociale, il ritorno del fascismo e la guerra con la Russia. La Commissione economica europea prevede per il 2024 una crescita del PIL di appena lo 0,9%, mentre la Banca d'Inghilterra, dopo due anni di stagnazione, prevede per la Gran Bretagna una crescita dello 0,25%. E questa è l'aspettativa di quasi tutti i paesi europei, paralizzati dagli alti tassi di interesse, dall'inflazione e dalla disoccupazione. Come conseguenza quasi diretta di questa crisi, si moltiplicano scioperi e proteste sociali, da est a ovest, da nord a sud del continente, dove quelli che avanzano sono i partiti di estrema destra, mentre i movimenti fascisti acquistano sempre maggiore forza elettorale, minacciando le stesse basi ideologiche e politiche del progetto di unificazione dell'Europa. Non c'è dubbio, tuttavia, che sia stata la Germania il luogo in cui gli impatti della guerra in Ucraina si sono fatti sentire in modo più forte e distruttivo. L'economia tedesca si è contratta dello 0,4% nell'ultimo trimestre del 2023 e dovrebbe contrarsi di un ulteriore 0,1% nel 2024. E, cosa ancora più grave, i tedeschi hanno subito una grande perdita di competitività, oltre al fatto che hanno dovuto affrontare un processo accelerato di deindustrializzazione; e questo dopo aver sospeso i loro contratti per l'importazione di energia a basso costo dalla Russia (uno strano modo di punire i russi che sta distruggendo l'economia tedesca stessa). Il prezzo dell'energia è aumentato del 41%, gli scioperi dei trasporti sono sempre più frequenti ed estesi e le proteste degli agricoltori tedeschi sono quasi permanenti. D'altra parte, i sondaggi d'opinione indicano che il partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) - che ha già il sostegno del 19% degli elettori - sembra essere destinato a diventare il secondo partito più grande della Germania; e non è escluso che venga chiamato a far parte del governo dopo le elezioni parlamentari del 2025, anche se c'è una forte presenza di settori fascisti o addirittura nazisti, che difendono posizioni xenofobe, anti-islamiche e favorevoli all'uscita della Germania dall'Unione Europea. Questa storia, forse avrebbe potuto essere diversa se gli stati europei, e la Germania in particolare, avessero sostenuto i colloqui di pace tra Russia e Ucraina all'inizio del 2022. Ma non è quello che è successo. In un primo momento, la Germania ha adottato una posizione riluttante di fronte all'aggressività anglo-americana, ma alla fine quella che ha prevalso è stata l'ala più guerrafondaia del suo governo, che si è mosso sotto la guida del ministro degli Esteri, Annalena Baerboch, e del ministro della Difesa, Boris Pisterius, e in stretto coordinamento con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che era stata ministro della Difesa tedesco tra il 2013 e il 2019. Dopodiché, lo stesso primo ministro socialdemocratico Olaf Scholz ha finito per dichiararsi favorevole alla «piena cooperazione della Germania con gli Stati Uniti», e infatti, durante i due anni che la guerra in Ucraina è già durata, la Germania è diventata il secondo fornitore delle armi utilizzate dal governo Zelensky contro le truppe russe.

Una volta definita questa posizione dalla parte dell'Ucraina e contro la Russia, il governo tedesco ha creato un Fondo di emergenza di 100 miliardi di euro per l'acquisizione immediata di armi all'avanguardia. E nel novembre 2023, il ministro della Difesa Boris Pisterius ha pubblicato le "Nuove linee guida per la politica di difesa tedesca"; un documento di 19 pagine, la Zeitenwende, che stabilisce come nuovo obiettivo strategico delle forze armate tedesche quello di diventare la «spina dorsale della deterrenza e della difesa collettiva per l'intera Europa». Inoltre, Boris Pisterius ha annunciato l'aumento della spesa militare tedesca, portandola al 2% del bilancio federale nel 2024, e al 3 e 3,5% nel 2025 e nel 2026, invitando gli altri paesi europei a fare altrettanto. In piena sintonia con Ursula von der Leyen, la quale ha annunciato la sua candidatura per la rielezione alla guida della Commissione europea, pur promettendo presto «una nuova strategia di difesa per l'Europa», dove si propone di «spendere di più, spendere meglio e spendere soprattutto per gli armamenti prodotti nella stessa Europa, utilizzando l'esperienza in Ucraina, al fine di superare la Russia». Infine, il 12 febbraio 2024 – in un'intervista all'AFP – il primo ministro Olaf Scholz ha dichiarato che il progetto del suo governo è quello di superare la crisi economica e assumere la leadership militare dell'Europa. In quell'intervista, Scholz ha invitato gli europei a «produrre in serie attrezzature militari», e ha difeso la necessità per la Germania di «abbandonare la sua industria manifatturiera per concentrarsi sulla produzione di armi su larga scala», dal momento che «non stiamo vivendo in tempo di pace». Queste stesse idee sono state portate alla Conferenza Strategica di Monaco, tenutasi dal 17 al 19 febbraio, e segnata dalla diffusione di informazioni "riservate" attribuite alla Bundeswehr, e trapelate dal sensazionalistico tabloid tedesco Bild, che ha annunciato un'invasione russa del territorio Nato per l'anno 2025. L'informazione è stata smentita, ma dopo che aveva già provocato il panico diffuso, e mobilitato il sentimento "russofobo" dei partecipanti, e dopo aver collocato la Russia nella posizione di grande "nemico esterno" degli europei; come era già accaduto con la fallita invasione francese della Russia nel 1812, e con la fallita invasione tedesca dell'Unione Sovietica nel 1941.

Insomma, tutto sembra indicare che, oggi, l'obiettivo comune della Germania di Olaf Scholz e della Commissione europea di Ursula von der Leyen sia quello di creare una "economia di guerra" sul territorio europeo. Un'economia di guerra guidata dalla Germania, che avrebbe rinunciato alla sua industria manifatturiera per diventare a capo di un complesso militare, integrato dalla Germania stessa, coinvolgendo gli altri paesi europei, secondo i "vantaggi comparativi" di ciascuno di essi. In questo modo, è ovvio, l'«Europa dei cittadini», idealizzata da Konrad Adenauer, o anche l'«Europa dei mercanti», criticata da François Mitterand, verrebbe ora sostituita da una nuova «Europa dei soldati e dei cannoni», come ai vecchi tempi dell'Europa stessa. Il nuovo progetto della Germania per l'Unione europea ha il sostegno degli Stati Uniti e, in caso di successo, confermerà il declino e la perdita di importanza della Francia, anche all'interno dell'Europa. E sarebbe stato un risarcimento per la distruzione dei gasdotti del Baltico, Nord Stream 1 e 2, che sarebbe stato fondamentale per il successo dell'economia tedesca. Questa nuova configurazione delle forze all'interno dell'Europa dovrebbe essere consacrata dalla scelta del primo ministro olandese Mark Rutte per la carica di segretario generale della NATO, al posto del norvegese Jens Stoltenberg, con l'appoggio proprio di Stati Uniti, Inghilterra e Germania. Rutte è un membro del Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia, di estrema destra, militarista, xenofobo e anti-islamista, ma molto vicino alle posizioni guerrafondaie e "russofobe" della signora Von der Leyden e del ministro della Difesa tedesco Boris Pisterius.

In questo senso, la probabile scelta di Mark Rutte al comando della NATO deve favorire il processo di ridefinizione e di accentramento del potere che è in atto in Europa e che punta verso Berlino. Se tutto va secondo i piani, tra altri 5 o 10 anni, la Germania aggiungerà alla sua ascesa economica e alla sua tutela finanziaria dell'Europa, la sua nuova preminenza militare, compresa la sua influenza sulla NATO, attraverso Mark Rutte, raggiungendo finalmente l'egemonia all'interno del Vecchio Continente, che è dal XIX secolo che continua a cercare, senza successo, nuove strade. Questa strategia è stata concepita insieme all'amministrazione Biden, ma dovrebbe essere mantenuta anche in caso di vittoria da parte di Donald Trump. Se Trump vince, è possibile che la Germania ricorra a un nuovo accordo di Monaco in modo da garantire così, nel caso di un'iniziativa nucleare tedesca che non avesse la copertura atomica degli Stati Uniti, la copertura atomica della Gran Bretagna. In ogni caso, l'obiettivo della Germania a questo punto non è quello di entrare in guerra con la Russia; ma si tratta piuttosto di creare e comandare una "economia di guerra" europea. Ma anche in questo modo, un progetto del genere richiederà almeno i 5 anni di un "periodo di grazia"; da questo, la necessità tedesca di prolungare la guerra in Ucraina nella forma di una "guerra di logoramento" che non abbia vincitori. Ma, come insegna la storia della Prima Guerra Mondiale, quando gli europei tornano alle armi, possono allora anche tornare in guerra; sebbene non vogliano: basta un errore di calcolo, provocato da una spavalderia come quella del presidente Emmanuel Macron, o la fuga di notizie di una cospirazione dei generali tedeschi per attaccare il ponte di Crimea, in Russia, come è appena accaduto; ed ecco che  tutto questo accurato assemblaggio potrebbe sfociare in una grande guerra europea. La differenza è che ora sarebbe una guerra della NATO contro la Russia, e in questo caso, come ha detto di recente l'ex presidente russo Dmitrij Anatol'evič Medvedev, si tratterebbe di una "guerra asimmetrica" che costringerebbe i russi a usare immediatamente le loro armi nucleari. Ciò significa, in ultima analisi, che se il nuovo progetto tedesco per l'Europa avrà successo, porrà fine a 80 anni di occupazione militare unilaterale ed esplicita del territorio tedesco da parte delle truppe americane. Ma allo stesso tempo riporterebbe il Vecchio Continente sull'orlo dell'abisso.

- di José Luís Fiori - Pubblicato il 15/3/2024 su https://outraspalavras.net/ -

venerdì 15 marzo 2024

Capitalismo e Antisemitismo !!

Possiamo affermare che  - rispetto al capitalismo - l'antisemitismo è strutturale, nel senso che il capitalismo secerne l'antisemitismo così come la nuvola reca in sé il temporale; ma lo è anche nel senso che non abbiamo a che fare semplicemente con una forma di pregiudizio nei confronti di un gruppo minoritario (lo storico Tal Bruttmann gioca una frase particolarmente azzeccata allorché scrive che: «Se insegnare la Shoah fosse stato un vaccino contro l'antisemitismo, a quest'ora lo avremmo saputo!»); e inoltre, l'antisemitismo, si distingue a partire dal suo carattere: (etno)populista, anti-egemonico e antiglobalista. Così, nel contesto della forma di socializzazione capitalista, fornisce un quadro interpretativo di quello che è un mondo estremamente complesso, e storicamente dinamico, e, nei suoi confronti, rivendica per sé un potere esplicativo globale. L'antisemitismo moderno viene pertanto a essere una visione del mondo che ora - partendo da quelle che sono state le forme precedenti di un antigiudaismo premoderno - cerca invece ora di spiegare il mondo moderno e capitalista.

Questa visione del mondo riconosce in maniera erronea il dominio globale, temporalmente dinamico, astratto e senza soggetto del capitale - dominio, che sottopone gli esseri umani a dei vincoli che vengono imposti loro da forze storiche astratte, la cui prassi sociale è all'origine, ma che non può essere colta direttamente - alla stregua del dominio dell'«ebraismo internazionale». Una tale visione reifica, in termini concreti, quello che è il dominio astratto del capitale, al quale contrappone invece la particolarità concreta, come se fosse essa ciò che è autentico: il popolo etnico, il "vero francese", la razza, ecc. L'antisemitismo non rappresenta una recrudescenza premoderna, ma piuttosto costituisce un tentativo di dare un volto pseudo-"concreto" a quella terribile astrazione intoccabile che è il valore. E in questo senso, per chi come noi sostiene che è strutturale al capitalismo, l'antisemitismo non è un "residuo", ma esso costituisce il nostro futuro globale, e viene guidato dal processo di crisi della valorizzazione, e dell'imbarbarimento. Pertanto, ogni tentativo - che non sia più immanente, ma trascendente - di contrastare l'antisemitismo implica che vada riconosciuto il legame interno che lega strutturalmente questa visione esplicativa del mondo al capitalismo, e implica anche la distruzione della stessa forma capitalistica della vita sociale.

La moderna visione antisemita del mondo, vede il dominio astratto del capitale - che sottomette le persone a delle costrizioni provenienti da un potere misterioso e impenetrabile - come se esso fosse il dominio dell'ebraismo internazionale. Per riuscire a cogliere e a comprendere questo, bisogna distinguere, non solo l'antisemitismo moderno dal razzismo, ma anche l'antisemitismo tradizionale - presente nelle società cristiane precapitalistiche (dove strutturalmente gli ebrei venivano accusati di essere il popolo deicida)  - dalla forma moderna di antisemitismo specifica della società capitalistica. L'antisemitismo moderno, viene spesso visto come se fosse una semplice variante del razzismo. Eppure le due forme differiscono in modo significativo, per quanto entrambe abbiano in comune, in quanto forme di discorso essenzialista, che comprendono i fenomeni socio-storici come essi fossero innati; biologici o culturali. Mentre la più parte delle forme di razzismo attribuisce all'Altro, che viene visto come inferiore, un ruolo significativo, fisico e concreto, l'antisemitismo moderno tratta invece l'ebreo, non come inferiore, ma come pericoloso, come portatore del Male. Agli ebrei, viene attribuito un grande potere, ma tale potere non è né concreto né fisico. Al contrario, è astratto, universale, inafferrabile e globale. In un simile contesto, gli ebrei costituiscono una cospirazione internazionale immensamente potente.

L'antisemitismo moderno non è semplicemente una forma di pregiudizio contro un gruppo minoritario; esso piuttosto si distingue per il suo carattere populista, anti-egemonico e antiglobalista. Si tratta di un quadro interpretativo che vede un mondo estremamente complesso e storicamente dinamico, rispetto al quale rivendica per sé un potere esplicativo globale. L'antisemitismo moderno è quindi una visione del mondo che, partendo da quelle che sono state le precedenti forme , oggi cerca di spiegare il mondo moderno e capitalista. Questa visione del mondo riconosce il dominio globale, temporalmente dinamico, astratto e senza soggetto del capitale - che sottopone le persone alla costrizione di forze storiche astratte che non possono cogliere direttamente - vedendolo in maniera erronea come se esso costituisse il dominio dell'"ebraismo internazionale". Così facendo, questa visione reifica, in termini concreti, il dominio astratto del capitale, al quale oppone la particolarità concreta di tutto ciò che vede come autentico.

Questa originale interpretazione dell'antisemitismo moderno è opera dello storico e teorico Moishe Postone (1942-2018). Essa assume le categorie fondamentali del mondo capitalista come punto di partenza, e le riconduce alla contro-razionalità antisemita. L'antisemitismo nasce allo stesso modo in cui, alla comparsa del capitale, appaiono anche le due forme della merce: il suo valore d'uso e la sua dimensione astratta (valore). L'antisemitismo nasce a partire dalla contrapposizione tra il lato concreto, da una parte, e quello astratto del lavoro, dall'altra; e questo a partire dal fatto che tutte le relazioni sociali capitalistiche appaiono in questo modo, antinomiche. Il concreto, il valore d'uso, della merce viene prodotto in quanto supporto necessario per l'astratto del valore. La coscienza comune, oppone sempre quello che sarebbe un concreto "buono" a un astratto "cattivo. In tal modo, l'astratto e il concreto non vengono colti in quella che è la loro unità, in quanto parte fondante di un'antinomia, a partire dalla quale l'effettivo superamento dell'astratto - vale a dire, della dimensione del valore - presuppone il superamento pratico e storico dell'opposizione stessa, e pertanto anche quello di ciascuno dei suoi due termini. Ragion per cui, l'antisemitismo personifica negli ebrei  l'astratto, il male;  mentre il lato concreto è il bene, l'organico, il biologico, il naturale. L'antisemitismo nazista, che costituisce anche una forma particolare di quello che è l'antisemitismo moderno, viene interpretato come se si trattasse di una sorta di  primaria rivolta "anticapitalistica", come una forma di "anticapitalismo feticizzato". Auschwitz è stata interpretata come se essa fosse una fabbrica per "distruggere il valore", vale a dire, per distruggere le personificazioni dell'astratto. Pertanto, l'antisemitismo tratta gli ebrei, non come membri di un gruppo razzialmente inferiore che deve essere tenuto al suo posto (con la violenza, se necessario), ma come la rappresentazione di un potere malvagio e distruttivo. In questa visione manichea del mondo, la lotta contro gli ebrei diventa una lotta per l'emancipazione umana. Liberare il mondo, significa liberarlo dagli ebrei. Lo sterminio (da non confondere con l'omicidio di massa), è la logica conseguenza di questa visione del mondo. Dal momento che l'antisemitismo può apparire anti-egemonico e quindi emancipatorio, ecco che esso può anche riuscire a confondere le differenze tra la critica reazionaria e quella progressista del capitalismo. In tal modo, costituisce un pericolo per la sinistra. Nell'antisemitismo si fonde e si confonde, in un amalgama esplosivo, ciò che è profondamente reazionario con ciò che è apparentemente emancipatorio .

(Bibliografia: Moishe Postone, Critique du fétiche-capital. Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche, Paris, PUF, 2013)

I compleanni …

A conclusione del suo libro Cumpleaños - com'è sua consuetudine - César Aira appone la data: 18 luglio 1999. Il libro si era aperto con l'informazione che il narratore aveva appena compiuto cinquant'anni; Aira nasce il 23 febbraio del 1949. Ma sebbene nel testo queste date non compaiano affatto, "Cumpleaños" può essere letto alla stregua di un diario: per tuto il libro abbiamo una routine, abbiamo dei giorni che passano e un narratore-scrittore che racconta la propria quotidianità, rivisitando scene del passato, facendo conoscenza con nuove persone e riferendoci questi incontri (riportando poi, anche gli effetti prodotti in lui da tali incontri: la circostanza più importante è quella in cui parla della cameriera del caffè, la quale vive nella sua città natale, e che dice al narratore-scrittore che anche lei scrive). Così, il libro Cumpleaños dimostra che l'opera di Aira è governata dal caso, dal momento che in essa c'è sempre un orizzonte alternativo (supplementare) da esplorare: e tuttavia per quanto i romanzi di Aira siano indubbiamente inattuali e sorprendenti, raramente includono la figura di un narratore-scrittore che si identifichi come César Aira (cosa che Cumpleaños invece fa fin dalla sua prima riga ed è per questo motivo che diventa un libro diverso, separato, memorialistico e autobiografico). Ma non solo: il narratore di Cumpleaños si esprime persino sulle novelle che scrive e che pubblica; parlando, in generale, anche della posizione che esse occupano nel suo "immaginario" (di come siano simultaneamente tanto dei tentativi di sfuggire al sistema letterario quanto anche di cercare nel contempo di entrarne a esserne parte (e questo lo dice il narratore stesso!).

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 14 marzo 2024

Leggere Marx - I testi più importanti di Karl Marx per il XXI secolo - 1 -

Le leggi naturali della produzione capitalista e le sue creature

Il detto «Ogni inizio è difficile» vale per tutte le scienze.(...) La forma di valore, della quale la forma di denaro è la figura perfetta, finale è molto povera di contenuto e assai semplice. Eppure, invano la mente umana da più duemila anni ha cercato di scandagliarla a fondo, mentre dall’altro canto l’analisi di forme molto più ricche di contenuto e molto più complesse è almeno approssimativamente riuscita. Perché? Perché il corpo, è più facile da studiare che la singola cellula del corpo. Inoltre, l’analisi delle forme economiche non può giovarsi né del microscopio, né dei reagenti chimici. La forza dell’astrazione, deve sostituire l’uno e gli altri. Orbene, nell’attuale società borghese, la forma di merce del prodotto del lavoro, ossia la forma di valore della merce, è la forma economica che corrisponde alla forma di cellula. Al profano, l’analisi di tale forma appare perdersi fra pure e semplici minuzie e sottigliezze. E di minuzie e sottigliezze, in realtà, si tratta, ma soltanto come quelle di cui si occupa l’anatomia microscopica. Quindi, fatta eccezione per la parte sulla forma di valore, non si potrà accusare questo libro di esser di difficile comprensione. Presuppongo, naturalmente, lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé. Il fisico osserva i fenomeni naturali nel luogo dove essi si manifestano nella forma più tipica e meno velata da influenze perturbatrici, oppure, quando possibile, compie esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgimento del fenomeno allo stato puro. In questa opera, la mia indagine riguarda il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio (...) In sé e per sé, non è questione di un grado più alto o più basso di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi di natura della produzione capitalistica, ma è questione proprio di tali leggi, di tali tendenze che operano e si fanno valere con ferrea necessità . Il Paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire! (...) Anche quando una società è giunta alle soglie della scoperta della legge di natura del proprio movimento –e il fine ultimo al quale mira questa opera è di svelare la legge economica del movimento della società moderna– non può né saltare con un grande balzo in avanti né eliminare per decreto le fasi naturali del suo sviluppo. Ma può abbreviare e lenire le doglie del parto. Una parola per evitare possibili malintesi. Non dipingo affatto in couleur de rose le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche (...) Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come un processo di storia naturale, meno di qualunque altro può rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali egli rimane socialmente la sua creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi. Nel campo dell’economia politica, la libera ricerca scientifica non incontra soltanto gli stessi nemici come in tutti gli altri campi. La natura peculiare del materiale che tratta, chiama a raccolta contro di essa le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse privato. Per esempio, l'Alta Chiesa Anglicana perdonerà più facilmente l’attacco a trentotto dei suoi trentanove articoli di fede piuttosto che quel trentanovesimo articolo,  sulle sue entrate in denaro.(...) Sarà per me benvenuto ogni giudizio ispirato da una critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta «public opinion», alla quale non ho né ora né mai fatto concessioni, per me vale sempre il motto del grande Fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!

(Karl Marx, "Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro I. Il processo di produzione del capitale")

«Lo stesso capitalista, è potente solo in quanto incarnazione del capitale (ed è per questo che nella contabilità italiana appare sempre come se fosse una duplice figura, ad esempio, anche come debitore del proprio capitale) ...  Pertanto il capitale è produttivo ... (in quanto) incarnazione e rappresentazione, ovvero, come forma oggettivata delle "forze produttive sociali del lavoro" o delle forze produttive del lavoro sociale ... Si presenta come una coercizione che i capitalisti impongono a sé stessi e ai lavoratori e, pertanto, nella realtà, come legge del capitale, sia contro gli uni che contro gli altri.»

(Karl Marx, "Manoscritti economici, 1863-1867")

mercoledì 13 marzo 2024

Vecchie Guerre !!!

John Converse, giornalista e drammaturgo californiano, si è reinventato corrispondente estero in Vietnam per scrivere un libro sulla guerra, ma soprattutto per sfuggire al delirio paranoico e all’infelice matrimonio con Marge, bigliettaia in un cinema a luci rosse con un problema di dipendenza. Converse viene accolto da una Saigon che spalanca le braccia a tutti, offrendo ad ogni angolo eroina e prostituzione perché, durante un conflitto sempre più difficile per le forze anticomuniste, «è naturale che la gente voglia sballarsi». È questa la giustificazione morale che Converse dà a se stesso quando, abbandonata l’idea di scrivere, si trova a smerciare tre chili di eroina dal Vietnam alla California. Sfruttando l’amicizia con Ray Hicks, che trasporterà il carico e lo consegnerà a Marge, Converse nutre un’illusione forse ancora più assurda delle sue crisi paranoiche: passare inosservato sotto gli occhi del governo americano, della sua intelligence, e della convergenza di interessi economici e criminali che un tale carico comporta. Negli Stati Uniti di Nixon e della guerra alla droga, inizia così una fuga in cui la linea di demarcazione tra preda e cacciatore è fluida e impalpabile come quella tracciata tra i due Vietnam.
Robert Stone ambienta il suo capolavoro in una realtà che vede i rapporti di forza prevalere su quelli umani, travolti dal cinismo e dall’esasperazione. È la fine di una generazione la cui parabola, partita coi migliori presupposti durante l’Estate dell’Amore, si infrangerà contro il Watergate svegliando l’America da un sonno forse troppo tranquillo.

(Robert Stone, "Dog Soldiers". Traduzione di Dante Impieri, Mimimum Fax, pp. 427, €19)

La guerra del Vietnam è un'allucinazione di violenza, gioco d'azzardo e fumi del beat
- di Massimo Carlotto -

La guerra del Vietnam fu senza dubbio l’evento bellico più criminogeno del Novecento. Il traffico di stupefacenti, la prostituzione a livelli endemici, il contrabbando di ogni tipo di merce, il gioco d’azzardo con le sue declinazioni più folli prosperarono all’interno del conflitto con la complicità dei governi, compreso quello degli Stati Uniti d’America, e di ogni ambito amministrativo e militare. La corruzione imperava ovunque, era il sistema su cui si era retto il decadente impero francese che, dopo la cocente sconfitta di Dien Bien Phu del 1954, aveva capito che l’Indocina era perduta per sempre. Colpisce ancora oggi l’ingenuità politico-militare con cui gli Stati Uniti si fecero via via coinvolgere nel conflitto, in particolare l’incapacità di risanare la classe dirigente sudvietnamita che per prima non credeva nella vittoria e pensava solo ad arricchirsi. Atteggiamento che contagiò l’intera popolazione, la quale reagì imparando a sopravvivere, vivendo alla giornata, ostentando un fatalismo che rasentava a tratti l’indifferenza. La fase americana del conflitto attirò l’interesse del mondo giovanile che, sia in patria che all’estero, si oppose con un grande e organizzato movimento di protesta, ma anche di persone che decisero di vivere direttamente quell’esperienza. Il Vietnam del Sud divenne così meta di donne e uomini provenienti da ambienti eterogenei – da quello religioso a quello giornalistico, insieme ad avventurieri di ogni risma – che vennero risucchiati dalle dinamiche di una situazione che nessuno era in grado di comprendere e tantomeno dominare. E molti di loro ne furono vittime.

Dog Soldiers del newyorchese Robert Stone, pubblicato nel 1974, racconta tutto questo attraverso una narrazione magistrale che immerge il lettore nel Vietnam dell’epoca. E la biografia dell’autore non lascia dubbi sul fatto che fece parte a pieno titolo di coloro che decisero di toccare con mano quella realtà. Ex militare, influenzato dalla Beat Generation, Stone diventò corrispondente di guerra imbarcandosi su un aereo diretto a Saigon. La guerra, durante e dopo la presa di Saigon da parte dei Vietcong il 30 aprile 1975, ha dato origine a una produzione straordinaria di saggi, romanzi e film. Dog Soldiers, tra tutti, si distingue per la profondità dello sguardo. A Stone non interessa solo raccontare una bella storia criminale nata tra le pieghe della quotidianità di personaggi sconfitti, ma utilizzarla come motore narrativo di una vicenda molto più complessa che si sviluppa tra il Vietnam e gli Stati Uniti.

John Converse, giornalista scadente – partito per il Vietnam alla ricerca di ispirazione dopo aver scritto opere teatrali di scarso successo e sposato la figlia del suo editore, un vecchio comunista perseguitato dalla sconfitta politica e dall’Fbi – entra in contatto con connazionali quantomeno ambigui e senza una vera ragione si ritrova con tre chili di eroina purissima da piazzare in patria. Converse non è un criminale, non ne ha la mentalità e tantomeno ne conosce i codici. Sembra che non abbia di meglio da fare che cacciarsi nei guai e mettere in pericolo le persone che gli sono vicine. Come la moglie Marge e l’amico Hicks. L’orrore misto a disgusto e a indignazione per la strage di elefanti colpevoli di essere usati dai Vietcong per trasportare armi – una carneficina insensata che aveva turbato anche gli equipaggi degli elicotteri americani che avevano mitragliato i pachidermi per giorni – serve a Converse per far cadere l’ultima obiezione morale a diventare un trafficante. Converse arriva alla conclusione che se il mondo vuole sterminare gli elefanti la gente vorrà sballarsi. E lui non può fare nulla per impedirlo. Ragionamento assurdo a New York ma non a Saigon.

Di contrabbandare l’eroina viene incaricato il soldato Hicks, amico di vecchia data, forse il migliore di Converse, che riuscirà nell’impresa per ritrovarsi poi inseguito, insieme a Marge, da un agente della Cia corrotto e dai suoi killer psicopatici. Una fuga emozionante e allucinogena tra sesso, droga, sparatorie, bar e motel squallidi, montagne abitate da strani guru e tanta violenza made in Usa in cui il lettore si ritroverà a confrontarsi con il grande patrimonio «beat» dell’epoca, dato che inevitabili e di grande bellezza sono i riferimenti a Kerouac e dintorni. Dog Soldiers è un romanzo ricchissimo di citazioni letterarie. Addirittura ogni personaggio è legato a un autore. Converse si reca in Vietnam con Saint-Exupéry in valigia. Hicks legge Nietzsche e riflette su Hemingway. Una missionaria legge Cronin, un killer cita Heine e uno strano dottore legge Hesse. Dog Soldiers è anche un romanzo sul disincanto. Stone ha voluto raccontarci gli Stati Uniti corrotti e violenti di Kennedy e di Johnson, preludio dell’umiliazione della sconfitta in Vietnam e dell’avvento dell’era reaganiana che inaugurerà un nuovo ordine mondiale, peggiore del precedente. Robert Stone già nel 1974 aveva capito che la fine degli ideali avrebbe privilegiato il cinismo e lo ha raccontato con Dog Soldiers, un grande affresco di un’epoca straordinaria.

- Massimo Carlotto - dalla prefazione al libro -

martedì 12 marzo 2024

Le citazioni sbagliate …

Nel suo "Respirazione artificiale", Ricardo Piglia riporta in maniera errata, distorcendola, una frase di Stephen Dedalus, contenuta nel secondo capitolo dell'Ulisse di Joyce: «La storia è un incubo dal quale cerco di svegliarmi». Marcelo Maggi, il personaggio protagonista del romanzo di Piglia, dichiara invece che: «La storia è l'unico luogo dove riesco a trovare sollievo in quest'incubo dal quale cerco di svegliarmi». Questa modifica si rifletterà poi, a sua volta, nel refrain ( riportato in epigrafe) che Ben Lerner inserisce nel suo romanzo "Nel mondo a venire" (10:04) Sellerio, dove nel mondo che verrà, «Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso.». Un'affermazione questa, che alla fine, nei "Ringraziamenti", Lerner chiarisce. dicendo che «Il testo che uso in epigrafe l’ho incontrato per la prima volta in "La comunità che viene" di Giorgio Agamben. Viene tradizionalmente attribuito a Walter Benjamin» (il quale, quest'ultimo, è a sua volta un punto di riferimento per la stesura del romanzo di Piglia).

Ma ecco che, a partire da questa sua prima trasformazione (rispetto alla frase di Dedalus) - e come se si diffondesse a partire da essa - ne viene fuori una seconda trasformazione, fatta seguendo la medesima falsariga: sempre all'interno del romanzo "Respirazione artificiale" troviamo, contenuto in esso, un romanzo utopico ("il mondo che viene"?!?) di Enrique Ossorio, dal titolo "1979", il quale reca come epigrafe una frase di Jules Michelet (cosa di cui ci informa il narratore di Piglia): «Ogni epoca sogna quella precedente». In realtà, la frase originale di Michelet è di senso opposto - «ogni epoca sogna la successiva, quella che viene dopo» - ed era stata utilizzata come epigrafe, proprio da Walter Benjamin per il suo saggio "Parigi, capitale del XIX secolo". Alla fine di quel saggio, Benjamin arrivava addirittura a riprendere l'idea di Michelet, e aggiungeva che, non solo ogni epoca sogna la successiva, ma nel sognarla si avvicina al risveglio.

fonte: Um túnel no fim da luz